giovedì 2 giugno 2016

NOVELLA N.11

                                           NOVELLA N.XI (11)

Alberto da Siena è citato a giudizio dall’inquisitore e, per paura , si raccomanda a messer Guccio Tolomei………

Al tempo di messer Guccio Tolomei viveva in Siena un simpatico uomo semplice e non malizioso come Dolcibene. Era balbuziente e si chiamava Alberto. Era molto ingenuo e frequentava spesso la casa di messer Guccio, con grande divertimento del signore.
Un giorno di Quaresima, messer Guccio era in compagnia dell’inquisitore, suo grande amico. Per scherzare un po’ gli disse di chiamare davanti a lui Alberto e di accusarlo di eresia, perché sicuramente si sarebbero divertiti un mondo. Appena disse queste cose , subito l’inquisitore convocò Alberto per il giorno dopo, di buon ora. Alberto, tutto tremante, potè appena dire “verrò”, perché, se prima era balbuziente, ora, per la paura, aveva quasi persa la lingua. Poi si recò immediatamente a messer Guccio e gli riferì di essere stato chiamato dal’inquisitore forse per l’accusa di eresia patarina. Il signore gli chiese se avesse detto qualcosa contro la fede cattolica. Alberto rispose che non sapeva che cos’era la fede “calonica” ma credeva di essere stato battezzato. Messer Guccio gli consigliò di andare dal vescovo e gli promise che sarebbe andato anche lui poco dopo. Gli promise anche che, poiché l’inquisitore gli era molto amico, sarebbe intervenuto in suo favore. Alberto si avviò, affidandosi al Signore.
Il vescovo, come lo vide, l’apostrofò con volto severo, chiedendogli chi fosse. Il meschino, balbuziente e tremante di paura, rispose “Sono Alberto, che voi faceste chiamare”. Il vescovo di rimando “Ho capito bene, tu ,dunque, sei quell’Alberto che non crede né a Dio, né ai Santi?”. “Signor mio, io credo in ogni cosa, chi vi ha riferito ciò non dice la verità” disse ,a sua volta, lo sventurato. E il vescovo continuò “Se tu credi in ogni cosa, credi anche nel diavolo; questo mi basta per arderti ,come patarino”. Alberto, mezzo morto, chiese misericordia e il vescovo allora gli ordinò di recitare il Paternostro. E Alberto incominciò, balbettando giunse ad un passo difficile dove si dice “da nobis hodie” e non riusciva a pronunciare quelle tre parole.
Allora l’inquisitore disse “Ho capito ,Alberto, perché chi è patarino non può dire le cose sante, torna da me domani mattina e io ti farò il processo che tu meriti”.
Il pover’uomo se ne tornò a casa sconfortato. Per la strada incontrò messer Guccio Tolomei che stava andando dall’inquisitore, come aveva promesso.
Come lo vide gli disse” Alberto, si vede che le cose vanno bene, perché tu già sei di ritorno”. Quello gli rispose “ Perbacco, non vanno bene per niente, perché dice che sono patarino e devo ritornare da lui domani mattina. Poco mancò che quella puttana di donna Bisodia (deformazione da “da nobis hodie”), che è nominata nel Paternostro non mi facesse morire allora ,allora. Vi prego di andare da lui per farmi una raccomandazione”.Messer Guccio promise di andare  e di fare tutto il possibile.
E così quel burlone andò dall’inquisitore e gli raccontò la storia di donna Bisodia, grazie alla quale si fecero per due ore grandissime risate.
Poi, chiamato di nuovo lo sventurato, l’inquisitore gli fece credere che se non fosse stato per messer Guccio l’avrebbe fatto ardere.
E veramente se lo meritava, perché, oltre tutto aveva detto che donna Bisodia, senza la quale non si poteva cantar messa, era una puttana, e gli intimò di non dirlo mai più.
Alberto, invocando misericordia, promise di non dirlo mai più e, morto di paura, se ne tornò a casa con messer Guccio, il quale, solo al pensiero, si sganasciava dalle risate.
              

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