giovedì 16 giugno 2016

NOVELLA N.XVII

                                        NOVELLA  N.17

Piero Brandani di Firenze intenta una causa, dà alcune carte al figlio che le perde. Capita in un luogo, dove, in modo strano, cattura un lupo. Avute per la cattura di quello 50 lire a Pistoia, ritorna e recupera le carte.

Nella città di Firenze vi fu un tempo un certo Piero Brandani che visse discutendo cause.  Egli aveva un figlio di diciotto anni.
Una mattina, dovendo recarsi al Palazzo del podestà per discutere una causa, affidò al figlio certe carte, gli disse di precederlo e di aspettarlo alla Badia di Firenze.
Il ragazzo fece come il padre gli aveva detto; giunto sul luogo si mise ad aspettare il padre. Tutto ciò avvenne nel mese di Maggio. Mentre il giovane attendeva, venne un fortissimo acquazzone e, passando una contadina o una fruttivendola con un paniere di ciliege sul capo, il paniere cadde e le ciliegie si sparsero per tutta la via. Il rigagnolo della via ,per l’acqua, si ingrossò tanto che pareva un fiumicello.
Il ragazzo insieme con altri volenterosi si diede a raccogliere di qua e di là le ciliegie che correvano lungo il rigagnolo, trasportate dalle acque. Quando le ciliegie finirono, il giovane, ritornando indietro ,non ritrovò più le carte che aveva sotto il braccio. Sicuramente gli erano cadute nell’acqua ,che le aveva portate verso l’Arno, senza che se ne accorgesse. Correndo chiedeva di qua e di là e così seppe che le carte ormai navigavano verso Pisa. Rattristato enormemente, per sfuggire all’ira del padre pensò di dileguarsi e se ne andò a Prato.
Giunse al tramonto del sole in un albergo dove arrivarono certi mercanti che si fermarono poco per proseguire poi verso il ponte Agliana. Essi, vedendolo così triste, gli chiesero che avesse. Conosciute le sue disavventure, lo invitarono ad andare con loro. Egli accettò ben volentieri. Giunsero alle due di notte al ponte Agliana e chiesero alloggio all’albergatore. Costui non voleva accoglierlo perché temeva i malandrini, azi si meravigliava che non erano ancora stati catturati.
Dopo un po’ l’albergatore aprì e li fece entrare, ma non aveva niente da dar loro da
mangiare. Consigliò, allora, che il ragazzo si vestisse da straccione ed andasse alla chiesa vicina. Lì doveva chiamare ser Cione, che era il prete e farsi prestare per l’oste 12 pani. Dette questo consiglio perché sapeva che se i malviventi avessero incontrato un giovinetto mal vestito non gli avrebbero fatto alcun male.
Il giovine andò malvolentieri perché era notte, non si vedeva niente ed aveva molta paura. Pure si avviò ed entrò in un boschetto, dove in lontananza c’era un po’ di luce. Pensando che fosse la chiesa ,si diresse verso la luce. Invece della chiesa c’era una piazza con la casa di un lavoratore, che ,sentendo bussare, gridò < Chi va là?>. Il ragazzo disse < Ser Cione, apritemi ,perché l’oste del ponte Agliana mi manda a chiedervi 12 pani>. Il lavoratore ,allora, minacciò di farlo impiccare a Pistoia, credendo che fosse un ladruncolo.
Il giovane, frattanto, sentendo ululare un lupo dal bosco, si infilò in una botte, sfondata nella parte superiore, morto dalla paura. Il lupo, uscito dal bosco, si avvicinò alla botte e cominciò a grattarsi su di essa. Sfregandosi infilò la coda in un buco. Il garzone, sentendosi toccare dalla coda del lupo, impaurito la afferrò, deciso a non lasciarla, usando tutte le sue forze. Il lupo cominciò a tirare per liberare la coda. Dal canto suo anche il ragazzo tirava. Tirando tutti e due, la botte cadde e cominciò a rotolare. Questo rotolamento durò per ben due ore e tanti furono i colpi che il lupo morì. Anche il giovane era mezzo morto, ma la fortuna lo aveva aiutato. Sebbene il lupo fosse morto , egli per tutta la notte, non ebbe il coraggio né di uscire, né di lasciare la coda.
IL mattino dopo il lavoratore, alla porta del quale il giovane aveva bussato, i alzò ed andò a controllare le sue terre. Notò subito ai piedi del burrone la botte e cominciò ad imprecare contro i delinquenti che si aggiravano di notte. Si avvicinò e vide giacere ai lati della botte il lupo che non pareva morto. Si mise allora a gridare << Al lupo, al lupo>>. Gli uomini del paese subito accorsero e videro il lupo morto e il ragazzo nella botte. Egli, spaventato, più morto che vivo, cominciò a raccontare tutte le sue disavventure, dalla perdita delle carte fino a quel momento.
I contadini ,impietositi, gli dissero << Figliolo, hai avuto una grande sventura, ma le cose si mettono al meglio. Infatti a Pistoia c’è una legge che chiunque uccide un lupo e lo porta al Comune riceve un premio di 50 lire>>. Poi gli offrirono aiuto ed egli riprese un po’ di coraggio. Insieme a quelli che lo aiutavano a portare il lupo giunse all’albergo del ponte Agliana, da cui era partito. L’albergatore sorpreso gli disse che i mercanti, che erano con lui, se ne erano andati credendolo morto o catturato dai malandrini.
Infine portò il lupo al Comune di Pistoia ed ebbe 50 lire. 5 lire le spese per far festa con la brigata. Con le altre 45 tornò dal padre. Gli chiese perdono e gli consegnò i soldi. Il padre li prese volentieri e lo perdonò. Con quei soldi fece copiare le carte perdute e con il resto continuò a discutere numerose altre cause.
Perciò non si deve mai disperare perché spesso come la fortuna toglie così dà e come ella dà ,così toglie.
Chi avrebbe mai immaginato che le carte perse nell’acqua potessero essere rifatte grazie a un lupo che aveva messo la coda nel buco di una botte e vi era rimasto imprigionato?.
Sicuramente questo è un esempio di come non bisogna mai disperarsi, né farsi prendere dallo sconforto e dalla malinconia.



giovedì 2 giugno 2016

NOVELLA N.11

                                           NOVELLA N.XI (11)

Alberto da Siena è citato a giudizio dall’inquisitore e, per paura , si raccomanda a messer Guccio Tolomei………

Al tempo di messer Guccio Tolomei viveva in Siena un simpatico uomo semplice e non malizioso come Dolcibene. Era balbuziente e si chiamava Alberto. Era molto ingenuo e frequentava spesso la casa di messer Guccio, con grande divertimento del signore.
Un giorno di Quaresima, messer Guccio era in compagnia dell’inquisitore, suo grande amico. Per scherzare un po’ gli disse di chiamare davanti a lui Alberto e di accusarlo di eresia, perché sicuramente si sarebbero divertiti un mondo. Appena disse queste cose , subito l’inquisitore convocò Alberto per il giorno dopo, di buon ora. Alberto, tutto tremante, potè appena dire “verrò”, perché, se prima era balbuziente, ora, per la paura, aveva quasi persa la lingua. Poi si recò immediatamente a messer Guccio e gli riferì di essere stato chiamato dal’inquisitore forse per l’accusa di eresia patarina. Il signore gli chiese se avesse detto qualcosa contro la fede cattolica. Alberto rispose che non sapeva che cos’era la fede “calonica” ma credeva di essere stato battezzato. Messer Guccio gli consigliò di andare dal vescovo e gli promise che sarebbe andato anche lui poco dopo. Gli promise anche che, poiché l’inquisitore gli era molto amico, sarebbe intervenuto in suo favore. Alberto si avviò, affidandosi al Signore.
Il vescovo, come lo vide, l’apostrofò con volto severo, chiedendogli chi fosse. Il meschino, balbuziente e tremante di paura, rispose “Sono Alberto, che voi faceste chiamare”. Il vescovo di rimando “Ho capito bene, tu ,dunque, sei quell’Alberto che non crede né a Dio, né ai Santi?”. “Signor mio, io credo in ogni cosa, chi vi ha riferito ciò non dice la verità” disse ,a sua volta, lo sventurato. E il vescovo continuò “Se tu credi in ogni cosa, credi anche nel diavolo; questo mi basta per arderti ,come patarino”. Alberto, mezzo morto, chiese misericordia e il vescovo allora gli ordinò di recitare il Paternostro. E Alberto incominciò, balbettando giunse ad un passo difficile dove si dice “da nobis hodie” e non riusciva a pronunciare quelle tre parole.
Allora l’inquisitore disse “Ho capito ,Alberto, perché chi è patarino non può dire le cose sante, torna da me domani mattina e io ti farò il processo che tu meriti”.
Il pover’uomo se ne tornò a casa sconfortato. Per la strada incontrò messer Guccio Tolomei che stava andando dall’inquisitore, come aveva promesso.
Come lo vide gli disse” Alberto, si vede che le cose vanno bene, perché tu già sei di ritorno”. Quello gli rispose “ Perbacco, non vanno bene per niente, perché dice che sono patarino e devo ritornare da lui domani mattina. Poco mancò che quella puttana di donna Bisodia (deformazione da “da nobis hodie”), che è nominata nel Paternostro non mi facesse morire allora ,allora. Vi prego di andare da lui per farmi una raccomandazione”.Messer Guccio promise di andare  e di fare tutto il possibile.
E così quel burlone andò dall’inquisitore e gli raccontò la storia di donna Bisodia, grazie alla quale si fecero per due ore grandissime risate.
Poi, chiamato di nuovo lo sventurato, l’inquisitore gli fece credere che se non fosse stato per messer Guccio l’avrebbe fatto ardere.
E veramente se lo meritava, perché, oltre tutto aveva detto che donna Bisodia, senza la quale non si poteva cantar messa, era una puttana, e gli intimò di non dirlo mai più.
Alberto, invocando misericordia, promise di non dirlo mai più e, morto di paura, se ne tornò a casa con messer Guccio, il quale, solo al pensiero, si sganasciava dalle risate.